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La mediazione all’epoca dei dati: cosa serve conoscere per valutare di Paola Lucarelli

Mai come in questo periodo si avverte la necessità di ripensare istituti,fenomeni, problemi alla luce di dati numerici e percentuali. Come se la pandemia avesse generato una lettura moderna dei fenomeni che impone sempre e comunque l’analisi statistica a disposizione di tutti i cittadini.
Si descrivono i fenomeni in numeri, punto. Non importa se dietro i dati dovrebbe esserci un’accurata scelta del campione, la metodologia di ricerca, un complesso ragionamento interpretativo che trasforma il fenomeno nella sua fedele descrizione; non importa se l’utilità dell’analisi dei dati dovrebbe derivare anche dalle relazioni fra fenomeni, purché nel rispetto di regole e modelli
scientificamente corretti. Tutto questo non importa a chi usa i numeri solo per dare alle proprie affermazioni la valenza di prova della verità che si afferma. Una verità preconcetta per lo più, un’idea o visione che si vuole dimostrare grazie ai dati che rispetto a questa sembrano oggettivamente di conforto. Non serve ciò che è prima e oltre il numero, non serve il contesto, il rapporto con altri fenomeni, serve solo la curva, ascendente o discendente, da usare a sostegno dell’affermazione.
Così i numeri e le percentuali arrivano ai lettori come verità, senza spiegazioni profonde, senza paragoni, senza lasciare spazio ai dubbi; come verità che rimangono scolpite nella pietra, alle quali, non conoscendo ciò che li ha prodotti, si può solo “credere”.
Nella ricerca che conduco, da anni ormai, a proposito del tentativo di mediazione dei conflitti su ordinanza giudiziale, la cosiddetta mediazione demandata dal giudice, ho dovuto utilizzare la
raccolta dei dati come metodo della sperimentazione per valutare l’impatto che questa produceva sui ruoli giudiziali e nelle decisioni degli avvocati e dei confliggenti. La pubblicazione dei Report di monitoraggio è stata fatta all’interno di studi approfonditi degli esiti prodotti dall’esperienza, in volumi collettanei nei quali i numeri hanno potuto essere sottoposti a riflessione accurata, scientifica, sotto tutti gli aspetti possibili.
Non credevo di dovermi stupire ancora, dopo 10 anni dall’entrata in vigore del d.lgs.28/2010 in materia di mediazione civile e commerciale, per come si propone al lettore il dato statistico in
materia di mediazione.
Lo spunto è tratto dall’articolo del Sole24Ore del 16 novembre a firma Valentina Maglione.
La verità preconcetta è nel titolo: “Il lock down azzoppa la mediazione”. Il dato utilizzato per dimostrarla è la riduzione dei casi di partecipazione al primo incontro (“il primo incontro disertato”, si legge nel sottotitolo), delle istanze volontarie di mediazione e delle istanze su ordine del giudice.
La descrizione della mediazione al tempo del covid contempla anche il calo delle mediazioni cosiddette effettive (questo non è un dato ricavabile dalle statistiche ministeriali) e degli accordi. Ora, poiché da anni i dati relativi alle procedure di mediazione vengono portati erroneamente a sostegno della tesi del “non funzionamento” della mediazione, è giunto il momento di porre fine a
questo grave e disonesto espediente fondato sulla ignoranza della materia e dell’analisi statistica, oppure sulla frettolosa e superficiale osservazione della realtà.
Sarebbe molto importante cambiare rotta e cominciare a costruire le basi per la corretta lettura dei fenomeni che, anziché distruggere il valore altissimo della mediazione per la società in cui viviamo, possa rappresentare la fedele spiegazione di ciò che si può cambiare per migliorarne la pratica e potenziarne gli effetti davvero benefici.
D’altra parte, non possiamo permetterci di buttare nel fango un istituto, previsto dall’ordinamento giuridico, che ha riserve enormi, seppure ancora non completamente esplorate, a beneficio della società tutta, le imprese e i cittadini. Chiunque lo faccia è gravemente responsabile per aver fatto perdere alla nostra società l’occasione di una giustizia efficiente e di una vita migliore.
L’ultima volta che ho sentito distorcere i dati relativi alla mediazione, è stato al convegno a Roma il 3 ottobre 2019, presso la Corte di Cassazione, ove il Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia osservava che in alcune materie la mediazione non ha funzionato e, dunque, si può eliminare la previsione dell’obbligatorietà del tentativo; mentre “alla negoziazione assistita, che registra oggi un sostanziale fallimento, deve essere dato un nuovo impulso” (l’espressione è tratta testualmente dal Report dell’evento sotto la supervisione del Cons. Giovanni Giacalone).
Sarebbe, invece, così semplice e onesto intellettualmente osservare che se un istituto giuridico produce esiti di scarsa rilevanza, le ragioni possono essere le più varie. Ma se la ragione consiste, e su questo non ci sono dubbi, nella violazione dell’obbligo, previsto dalla legge, di tentare la mediazione, allora non è la mediazione a non funzionare, ma il rispetto delle norme, l’etica professionale e il senso civico.
Ancora, leggendo l’articolo di Valentina Maglione, la tentazione del lettore è quella di concludere nel senso del “non funzionamento” della mediazione, scivolando anche questa volta nell’abisso
dell’ignoranza, nel senso latino del termine, offerta sulla pagina del giornale.
L’articolo non dice che le controversie civili pendenti nelle aule giudiziarie registrano fino al 2019 un calo di oltre il 40%.
Se la mediazione è procedura prevalentemente avviata in quanto condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, la riduzione del contenzioso ovviamente non può che determinare (solo in parte peraltro) una riduzione anche dei tentativi obbligatori di mediazione.
Osservare che la mediazione presenta numeri ridotti con riferimento ai depositi delle istanze di mediazione presso gli organismi nel secondo semestre 2020 rasenta la banalità: tutto si è fermato all’avvio del lock down. L’attività negli uffici giudiziari più di altre della pubblica amministrazione.
Ma ciò che è importante osservare in questa sede è che, mentre la giurisdizione si è a lungo fermata nel vero senso della parola, la mediazione, dopo due settimane necessarie per adattare le procedure alla digitalizzazione al fine di realizzare sulla piattaforma on line gli incontri con le parti confliggenti e i loro avvocati, è ripartita e ha prodotto, contrariamente a quanto si legge nell’articolo in questione, un incremento degli accordi conciliativi. Si vedano in proposito le statistiche ministeriali con riferimento al primo trimestre e poi al secondo trimestre 2020: durante il lock down la percentuale di accordi è aumentata di 2,7 punti percentuali!
Altro che decrescita, altro che zoppa, la mediazione è più che mai viva ed efficiente proprio nel periodo di lock down.
Ma torniamo al dato che ha suggerito al quotidiano di navigare l’onda che distrugge quello che trova, senza attenta riflessione e cautela. Il calo della partecipazione del chiamato in mediazione: il motivo non è affatto il lock down perché quel dato è già in lieve calo dal quarto trimestre del 2018.
Il motivo di questa pratica va ricercato, con metodo scientifico, osservato e compreso fino in fondo, discusso e posto come obiettivo di miglioramento.
Infine trovo inutile e ingiusto che si pubblichi la mia foto accanto alla mediazione considerata “zoppa” a causa del lock down.
È molto grave che ciò sia avvenuto perché non c’è giorno, non c’è momento in cui il mio lavoro non miri a costruire una cultura giuridica nuova e nobile grazie alla valorizzazione dell’autonomia, del consenso, della consapevolezza e della responsabilità nella gestione dei conflitti, valori insiti e ineliminabili dalla pratica di mediazione seriamente e onestamente condotta.
Ricordo che il Report della più efficiente ed efficace prassi di mediazione demandata dal giudice (Giustizia Semplice) rileva che sono stati chiusi 500 processi grazie alle ordinanze di mediazione emesse in sole due sezioni da parte dei giudici in dieci mesi.
Ci sono tante notizie che permetterebbero ai cittadini di sapere che la strada c’è per dar loro la possibilità di avere fiducia nella Giustizia, di ricevere la definizione giudiziale della lite in tempi brevi, di imparare a selezionare ciò che deve necessariamente essere delegato al giudice e ciò che si può tentare di risolvere in autonomia grazie all’aiuto del proprio avvocato.
Basterebbe comunicare ai cittadini e alle imprese ciò che funziona, invece di inventare ciò che non funziona.

 

Paola Lucarelli